di Alberto Spampinato*
(Articolo 21) – E’ sempre difficile ricordare nel modo giusto gli eroi civili che hanno perso la vita per grandi ideali. Si corre il rischio di cadere nella retorica o di celebrare sanguinose sconfitte della società civile. Non dimenticherò mai ciò che mi disse, tanti anni fa, Gillo Pontecorvo. Era alle prese con il progetto di un film sull’assassinio del generale Carlo Alberto Della Chiesa. Io lo incoraggiavo, ma lui concluse: “Non farò questo film perché questa storia, comunque si gira, racconta una sconfitta dell’Italia migliore”. Io mantenni il dissenso e quel dissenso oggi mi fa apprezzare FortApàsc di Marco Risi, che ha accettato di correre quel rischio e ha vinto la scommessa.
FortApàsc ricorda Giancarlo Siani nel modo giusto: quello indicato un anno fa dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che ha posto “l’esigenza che tutti gli uomini cui il “Giorno della memoria” è dedicato “siano ricordati non solo come vittime, ma come persone, che hanno vissuto, hanno avuto i loro affetti, il loro lavoro, il loro posto nella società, prima di cadere per mano criminale”.
Marco Risi ci racconta la vita di Giancarlo Siani negli ultimi quattro mesi di vita. La vita di un ragazzo normale nel quale molti ragazzi di oggi si identificheranno, perché hanno le stesse passioni, le stesse debolezze, gli stessi sogni, e la stessa passione civile. Non ho mai incontrato Giancarlo, ma dopo questo film mi pare di conoscerlo un po’. Mi ricorda molto mio fratello Giovanni, giornalista dell’Ora in corsa per l’assunzione, anche lui alla soglia dei 26 anni, quando fu assassinato, nel 1972 a Ragusa, perché si ostinava a pubblicare notizie pericolose, che altri giornalisti scartavano o fingevano di non vedere. Per usare la classificazione che si fa nel film, erano “giornalisti-impiegati. Giancarlo e Giovanni invece erano “giornalisti-giornalisti” e a 26 anni erano già cronisti valorosi, anche se ci sono voluti tanti anni per riconoscerlo.
Ma la straordinaria ed esaltante avventura di Giancarlo non ricorda solo quella di Giovanni. Somiglia a quella degli altri sette giornalisti siciliani che hanno perso la vita nel nostro paese negli ultimi 40 anni sullo steso fronte: il fronte delle notizie scomode. Fortapàsc ripropone perciò una questione che meriterebbe molta maggiore attenzione; che è sotto i nostri occhi ma che, oggi come allora, ci ostiniamo a non vedere: nella civilissima Italia – e non solo in Paesi lontani, in democrazie giovani o incerte, in Turchia o in Russia – con le minacce, con le intimidazioni, e perfino con l’omicidio si cerca di impedire ai giornalisti di fare fino in fondo il loro mestiere, che – sia detto en passant – fino a prova contraria consiste nel dare all’opinione pubblica le notizie, tutte le notizie di rilevante interesse generale, anche quelle più nascoste e più sgradite, anche quelle che danneggiano gli interessi di personaggi potenti e le collusioni e gli intrecci fra affari, politica e criminalità. Purtroppo non si riesce ancora a far capire che l’informazione soffre in Italia di questo orribile male. E intanto ciò che si crede impossibile continua ad accadere accanto a noi.
Sono tantissimi i giornalisti presi di mira da affaristi, da criminali, da prepotenti, da potentati che non potrebbero sopravvivere sotto i riflettori dell’informazione critica, sotto la lente di un giornalismo attento, curioso, esercitato con coraggio e passione civile.
La lista è molto più lunga di quanto si creda. L’elenco degli uccisi e sotto scorta, da solo, è impressionante. Ma è solo la parte visibile di un dramma sociale molto più ampio, che resta per la massima parte sommerso e, spesso, resta dramma segretissimo e privato di chi viene preso di mira. Perché molti non hanno la voce, la forza, i sostegni necessari per denunciare il sopruso, per farne un fatto pubblico, per ribellarsi.
Dobbiamo parlare di più di queste cose e il film di Marco Risi ci aiuta a farlo, ci aiuta a far sapere a far sapere a tutti che nelle terre di mafia – e non solo lì – le minacce ai cronisti producono una enorme, inammissibile limitazione della libertà di informazione. Dovremmo imparare a pensare ai nostri cronisti di mafia con la stessa apprensione con cui pensiamo ai cronisti di guerra che mandiamo in Iraq, in Afghanistan, in altre zone di guerra.
Noi giornalisti non possiamo nasconderci dietro la battuta che ci sono “giornalisti-giornalisti” e “giornalisti impiegati” senza chiederci se fanno lo stesso mestiere. Dobbiamo partire dal ricordo dei giornalisti italiani uccisi, ricostruire una per una le loro storie, alimentare il ricordo dell’esempio professionale e civile che ci hanno dato e sviluppare una riflessione più generale. Dobbiamo farlo anche se scorrere il rosario delle vittime è triste, è doloroso, crea imbarazzo, fa nascere sensi di colpa.
Tocca a tutta la società, ma innanzi tutto ai giornalisti. Purtroppo, ancora oggi, il giornalismo fa fatica a riflettere su queste cose e su se stesso. Per suscitare questa riflessione alcuni di noi, insieme alla FNSI e all’Ordine dei Giornalisti, hanno creato un osservatorio sui cronisti sotto scorta e sulle notizie oscurate, una iniziativa che sta muovendo i primi passi e che ha bisogno della collaborazione e della passione civile di tutti coloro che si commuovono vedendo Fortapasc.
* consigliere nazionale della FNSI