di Carlo Vulpio
Non ci sono martiri, né eroi in questa storia. E non c’è nemmeno un Humphrey Bogart che dica: “E’ la stampa, bellezza”. Ci sono soltanto giornali e giornalisti. Fatti della vita, che spesso sono fatti scandalosi, e modi diversi di raccontarli. Poteri forti e uomini deboli.
Come forse qualcuno già sa, per il mio giornale, il Corriere della Sera, mi sono occupato per quasi due anni delle inchieste Poseidone, Why Not e Toghe Lucane dell’ex pm di Catanzaro, Luigi de Magistris, e delle disavventure, chiamiamole così, di Clementina Forleo, da quando l’ex gip di Milano ha cominciato a occuparsi delle scalate bancarie illegali Unipol-Bnl-Antoveneta-Rcs.
Su queste cose, e su altre molto simili, ho scritto anche un libro, “Roba Nostra” (il Saggiatore), in cui si narra di una Nuova Tangentopoli italiana: il primo punto fermo sul quale si basa questa riflessione.
Molti, a destra e a sinistra, naturalmente interessati a smontare sia il contenuto di queste inchieste, senza conoscerle né discuterle, sia l’idea stessa che possa esserci una Nuova Tangentopoli hanno di volta in volta cercato di liquidare le une e l’altra. Come un rigurgito di giustizialismo, come l’irresistibile mania di protagonismo dei soliti magistrati in cerca di autore, o come l’insopprimibile desiderio di riattivare quel circolo (definito sarcasticamente anche circo) mediatico-giudiziario che porta certe notizie fin sui giornali (ma guarda un po’). Insomma, tutto l’armamentario propagandistico che di fronte a un problema serio sposta sempre il problema un po’ più in là per parlar d’altro e rovesciare le parti. Così il problema, il “caso”, per tornare a noi, sono diventati de Magistris e Forleo.
Sapete tutti com’è andata a finire. Forleo e de Magistris trasferiti con motivazioni risibili, pretestuose, addirittura inesistenti e le loro inchieste fatte a pezzi. Anche se alcuni mesi dopo la loro defenestrazione e l’uscita di “Roba Nostra” sono stati in molti, a destra e a sinistra, a riconoscere come stanno realmente le cose. Due persone, in modo particolare. L’ex presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, e Primo Greganti, sì, proprio l’uomo del “conto Gabbietta” e delle tangenti rosse. Entrambi, Ciampi e Greganti, hanno detto la stessa cosa: oggi non è “come”, ma è “peggio” di Tangentopoli ’92.
Se la nuova Tangentopoli è più grave della vecchia, allora si capisce meglio perché scriverne e parlarne in tv e sui giornali è cosa molto, molto più difficile di quanto non lo fosse nel ’92. E non solo perché è cambiata l’aria, o perché ci sono dentro tutti (anche allora c’erano dentro tutti, ma alcuni hanno pagato e altri no), quanto perché questa Tangentopoli è davvero “nuova”: innanzi tutto è, al tempo stesso, più semplice e più raffinata nei meccanismi; poi, è più remunerativa e più nascosta; infine è di una trasversalità perfetta, in alcuni casi sembra studiata a tavolino affinché i suoi protagonisti “simul stabunt, simul cadent”.
Per questa ragione, nessuno di noi (pochi) giornalisti che avevamo deciso di scrivere ciò che sapevamo si è mai illuso che il giorno dopo avrebbe continuato a scrivere sull’argomento. In questi ultimi due anni però, bene o male, ci siamo riusciti. Con prezzi alti, in termini di costi umani e professionali, ma ci siamo riusciti.
Abbiamo scritto di questa Nuova Tangentopoli nonostante non operassimo in “pool”, come facevano i cronisti ai tempi di Mani Pulite, ma fossimo altrettanti cercatori di notizie “maledetti e solitari”. E nonostante tutti quei “colleghi” che, pur avendo le nostre stesse notizie, sceglievano di non pubblicarle, di non battersi all’interno dei rispettivi giornali per pubblicarle, o addirittura facessero a gara per “smentire” quelle notizie prima ancora di venirne a conoscenza e di verificarle.
Per questa “presenza” del Corriere della Sera sulle inchieste più delicate del Paese, nell’estate del 2007, i magistrati di Matera indagati in Toghe Lucane mi hanno accusato (assieme ad altri quattro giornalisti e a un capitano dei carabinieri) di “associazione a delinquere finalizzata alla diffamazione a mezzo stampa”, un reato inedito e delirante, per il quale sono ancora indagato.
Le indagini a nostro carico sono state prorogate quattro volte. Ma per questa vicenda nessuna presa di posizione “garantista” da parte dei commentatori un tanto al chilo della “libera stampa”. Per questa vergogna, nemmeno un decimo dell’attenzione riservata da stampa e tv per le proroghe d’indagine, naturalmente subito condannate, decise nelle vicende abruzzesi, campane, toscane, in cui sono indagati politici e imprenditori, cioè i principali protagonisti di ogni tangentopoli che si rispetti.
Con l’imputazione di “associazione a delinquere eccetera”, i magistrati di Matera mi hanno intercettato e hanno ascoltato tutto ciò che dicevo con i miei colleghi e con il mio direttore, e hanno intercettato – meglio sarebbe dire: spiato -, anche l’ufficiale dei carabinieri e il pm de Magistris che parlavano delle indagini su quei magistrati indagati. I quali si sono trasformati d’autorità in indagatori dei loro indagatori (una vera e propria anticipazione, quasi un esperimento, di quanto avverrà a dicembre 2008, nella cosiddetta “guerra” tra le procure di Salerno e Catanzaro).
Quando accadde tutto questo, che se non è un vero e proprio golpe giudiziario molto vi somiglia, tra i pochi a capire cosa stesse succedendo e cosa ci stessero combinando – come giornale e come informazione libera, intendo -, fu proprio Paolo Mieli. L’ho scritto anche in “Roba Nostra”, in un momento non sospetto. Quindi il valore di questa testimonianza è doppio.
Mi disse Mieli: “La cosa più grave, più terribile che possano fare a uno di noi, a un giornalista, è questa. Intercettarlo e metterlo sotto controllo in questo modo. Dopo di che, possono solo sparargli”.
Io lamentai il silenzio degli altri giornalisti. Ma capii che anche il direttore del mio giornale era sotto tiro e sotto pressione come me, a causa di quelle inchieste raccontate dal Corriere, e uscii dalla sua stanza forte di una convinzione: che “l’intesa” con un direttore che rischiava di suo facendomi scrivere certe cose valesse molto di più di scontate dichiarazioni di solidarietà dei “colleghi” e della “categoria” (che in ogni caso non ci sono state). Insomma, la migliore dimostrazione che non fossi solo e che non rischiassi l’isolamento era nel fatto che i miei articoli su quelle vicende, che ormai erano diventate il più grave scandalo giudiziario dal dopoguerra, potessero continuare a essere pubblicati.
Invece, il 3 dicembre scorso, dopo un mio articolo ricco di nomi eccellenti sulle perquisizioni e sui sequestri ordinati dai magistrati di Salerno nei confronti dei magistrati di Catanzaro, sono stato improvvisamente “rimosso” da quel servizio. Stop. Basta. Senz’alcuna motivazione. E da quel momento non posso più scrivere di Salerno, Catanzaro, Poseidone, Why Not, Toghe Lucane.
Ma come, lo stesso Mieli che fino a quel momento si era fatto “garante” della mia libertà e quindi della mia incolumità, proprio lui dice basta? Articoli fatti male? Tutt’altro. Qualche grave “scivolone” su un fatto, su una circostanza di rilievo, su un dettaglio? Nemmeno.
Dopo, molti giorni dopo, nel mio giornale circolerà voce che ero stato rimosso perché ero “indagato”. Un tentativo debole di dare una motivazione alla mia rimozione. Ma anche un tentativo maldestro, perché non specificava che ero, e sono, indagato per quella acrobazia giuridica definita “associazione a delinquere finalizzata alla diffamazione a mezzo stampa”, elaborata strumentalmente dalla procura di Matera. Avrebbe dovuto scattare come un sol uomo, la “categoria”, di fronte a un fatto così grave e così palesemente fuori dalle regole del diritto. Per difendere me, ma soprattutto per difendere il principio di libertà e indipendenza dell’informazione. E invece eccola pronta a farne un motivo di autogiustificazione della propria condotta.
Ma poi, cosa c’entra Matera con la cosiddetta “guerra” tra le procure di Salerno e Catanzaro, che stavo seguendo?
E in ogni caso, cosa c’entra accampare questa motivazione balorda basata su una figura di reato balorda, a sua volta basata sull’assenza di qualsivoglia processo o sentenza che abbia definito diffamatori i miei articoli? Articoli che, al contrario, in questi due anni hanno trovato via via conferma negli sviluppi delle indagini. Articoli che in diversi casi sono stati inchieste giornalistiche dalle quali – dopo – sono scaturite inchieste giudiziarie.
Ancora. Si può davvero credere che siccome un giornalista viene querelato da un cittadino, o peggio da un indagato, debba per ciò stesso smettere di occuparsi dei fatti che coinvolgono quel cittadino o quell’indagato?
Se siamo a questo punto, allora chiunque (ma già siamo su questa strada) userebbe la querela (e ormai anche la citazione al risarcimento danni) proprio per centrare l’obiettivo di togliersi (o far togliere) dai piedi il giornalista “indesiderato”. Come del resto è stato fatto per il pm Luigi de Magistris, quando ha iscritto tra gli indagati Clemente Mastella. Qual è stata l’abnormità logica, prima che giuridica, concepita in quel caso per trasferire de Magistris? Si è detto: un pm che indaghi sul ministro si mette in una posizione di conflitto di interessi con il ministro indagato… Ne consegue, quindi, che non si può indagare un ministro (nemmeno quando quel ministro, come nel caso di Mastella, era indagato per fatti risalenti al periodo in cui era senatore). Ma per favore!
La verità è che io dovevo smettere di occuparmi di ciò che avevo seguito per due anni per una ragione molto semplice. Una ragione che trascende i direttori di testata. In Italia, poi, li sopravanza di parecchie lunghezze, non c’è gara. Ed è la ragione della forza.
La forza dei poteri forti, che si sono sentiti in pericolo per le inchieste di magistrati che svolgevano il proprio compito di servitori dello Stato senza accucciarsi sotto l’ala protettiva dei politici e dei magistrati come loro. Ma, al contrario, hanno messo sotto accusa proprio i magistrati, come mai era stato fatto prima, facendo emergere un dato sconvolgente, che nessun procedimento disciplinare e nessun trasferimento potranno mai fiaccare.
Questa storia, che non ha martiri e non ha eroi, è, pensateci bene, anche una storia di trasferimenti decisi da altrettanti poteri forti: la magistratura ha trasferito Forleo da Milano a Cremona e de Magistris da Catanzaro a Napoli, il Vaticano ha fatto cambiare aria al vescovo di Locri, monsignor Giancarlo Bregantini, mandandolo a Campobasso, l’Arma dei carabinieri ha trasferito nelle Marche il capitano Pasquale Zacheo, braccio destro di de Magistris in Basilicata, la procura generale di Catanzaro (quella che secondo i magistrati di Salerno ha avocato illegittimamente l’inchiesta Why Not) ha sollevato dall’incarico il consulente informatico del pm de Magistris, Gioacchino Genchi. Mancava un giornalista. E’ toccato a me.
I poteri forti, dicevamo. Tra questi, vi è senz’altro la magistratura. Ma cosa fa paura davvero in tutta questa storia? Qual è la novità indicibile? Eccola. Partendo dalla Calabria e dalla Lucania, su su per l’Italia intera, stava venendo fuori ciò che in fondo tutti pensavano ma non osavano confessare nemmeno a se stessi. E cioè che non c’è mafia e non c’è tangentopoli e non c’è corruzione e non c’è sistema di malaffare che regga e prosperi, come purtroppo accade in Italia, se non ci sono interi pezzi di magistratura, soprattutto ai livelli direttivi, che garantiscono e coprono questo sistema di nefandezze e in moltissimi casi vi partecipano a pieno titolo.
E’ stata la prima volta che un potere forte come la magistratura si è trovata a doversi confrontare non con il problema di alcune “mele marce” al suo interno, ma con una realtà ben più estesa e radicata, che minacciava, partendo da Toghe Lucane, di provocare uno sconquassante effetto domino per “il sistema”.
Ecco dunque spiegata la corsa del ceto politico – ma non era l’avversario “storico” della magistratura? – a difendere i magistrati inquisiti per reati gravissimi e a garantirli nei loro posti e nelle loro funzioni. Mentre, insieme con il Csm e l’Anm, preparava il rogo per tutti i magistrati liberi, appassionati al loro lavoro, pronti a fare il proprio dovere, impartendo così una durissima lezione, che fosse d’esempio per tutti gli altri, ai due giudici “senza partito”, le pietre dello scandalo Clementina Forleo e Luigi de Magistris.
Il potere forte “magistratura”, per esempio, prima ancora che il potere forte “politica”, non gradisce che si dica, e infatti non lo dice nessuno, che nel Palazzo di giustizia di Milano è rimasta chiusa nei cassetti per due mesi la risposta della giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato riguardante l’iscrizione del senatore Nicola Latorre sul registro degli indagati (sempre per la vicenda delle scalate bancarie).
Siamo nella primavera-estate 2008. Il caso doveva essere trattato dal giudice competente, che era ancora il gip Clementina Forleo. Invece le carte, regolarmente trasmesse dal Senato il 29 maggio al presidente del tribunale di Milano, Livia Pomodoro, sono state tenute letteralmente nascoste negli uffici del Palazzo di giustizia fino al 29 luglio. Fino a quando cioè la Forleo, per un piccolo incidente domestico, ha dovuto ricorrere a qualche giorno di congedo per malattia. Appena la Forleo va in malattia, con la motivazione della “urgenza a provvedere” (l’urgenza? due mesi dopo?) le carte vengono tirate fuori e assegnate ad altro gip, Pietro Gamacchio. Il quale “in tempo reale” studia un processo complesso, che non conosce, e il primo agosto (il giorno prima del rientro della Forleo) rinnova la richiesta di autorizzazione all’iscrizione del parlamentare nel registro degli indagati.
Dov’è l’inghippo? Nel fatto che a quel punto la procura di Milano poteva tranquillamente iscrivere Latorre nel registro degli indagati (e così D’Alema e gli altri parlamentari, perché la Camera dei deputati aveva già dato il nulla osta, affermando che non era necessaria l’autorizzazione del Parlamento). Ma non lo ha fatto. Grazie al gip Gamacchio. Infatti, in un caso del genere, dice la legge, il giudice “può” (può, non deve) rinnovare la richiesta di autorizzazione.
Se Gamacchio non avesse fatto ciò che con ogni probabilità non avrebbe fatto la Forleo (qualora le avessero trasmesso gli atti che le spettava avere), a quest’ora le cose starebbero diversamente. Non ci sarebbero state tutte le danze inutili tra Roma e Strasburgo, tra parlamento italiano ed europeo, e Latorre, D’Alema e gli altri telefonisti, a loro garanzia si capisce, come per ogni altro cittadino, risulterebbero iscritti nel registro degli indagati.
Ma questo, in Italia, non si può dire. Non si può dire che il “caimano” Berlusconi, bene o male, nelle aule di giustizia ci è entrato (giustamente) affinché alcuni processi a suo carico fossero celebrati. Mentre per il “caimano” D’Alema (e compagni) non ci può essere nemmeno la semplice iscrizione in un registro degli indagati.
Ognuno a questo punto tragga le conclusioni che vuole, anche quelli ancora convinti che la logica del “meno peggio” sia opportuna o necessaria. Per la cronaca, resta l’esito finale: Forleo trasferita e Gamacchio promosso a presidente di sezione.
Queste cose, per chi volesse conoscerne tutti i passaggi e i dettagli, sono state da me già scritte in una nota (“Su Forleo e de Magistris è calato il silenzio totale”) pubblicata non sul giornale per il quale lavoro, bensì sul blog del giudice Felice Lima, “Uguale per tutti”. Quella nota è stata poi ripresa da “Dagospia” e ora è anche sul mio blog, carlovulpio.it. “Ne dobbiamo scrivere in rete, quasi fossimo esuli o clandestini”, così concludevo quella ricostruzione, che in qualunque altro Paese “a democrazia occidentale” avrebbe trovato almeno un giornale o una tv disposti a parlarne.
Forse adesso si comprende meglio perché non è il 3 dicembre, non è la mia “rimozione” dai fatti di Catanzaro il cuore del problema. Quell’episodio è solo l’acme di una patologia. Di un sistema malato. In cui vi sono poteri forti non controllati né temperati da necessari contrappesi, tra i quali – essenziale, vitale – l’informazione. Che invece è fatta da “uomini deboli”, i giornalisti, una categoria che non c’è.
Per i giornalisti, o per la maggior parte di loro, l’idea che l’informazione sia prima di tutto un mezzo per difendere e garantire la democrazia è un’idea superata, o peggio, inservibile per far carriera e per scalare posizioni di potere.
Se non fosse così, se fosse vero il contrario, non sarebbe passata sotto silenzio la intimidazione messa in atto da magistrati inquisiti che intercettano un intero giornale per sapere come ragionano i suoi giornalisti e per conoscere in anticipo cosa pubblicheranno. Se non fosse così, quei magistrati inquisiti e coloro che li hanno sostenuti, a tutti i livelli istituzionali, si sarebbero ben guardati dall’attuare l’azione eversiva di spiare i magistrati che indagano su di loro.
Su questo, non c’è stata ancora una sola procura della Repubblica che abbia aperto un’inchiesta. Mentre il sistema dell’informazione si è ben guardato dal trattare l’argomento. Ma il silenziatore non ha funzionato. Non può più funzionare. Perché c’è un mondo reale, ormai, fatto di persone reali, che utilizzano lo strumento virtuale della Rete e che si parlano, si informano, si confrontano. E’ molto difficile ingannarle. E infatti, che questa mia “rimozione” dal “caso Catanzaro” non fosse solo un deprecabile episodio, ma il sintomo di una malattia ben più grave, che va ben oltre la mia persona e il mio lavoro, lo hanno capito subito qualche milione di frequentatori della Rete. Associazioni, singoli individui, blog noti come quelli di Beppe Grillo e di MicroMega, o meno noti (elencarli tutti non si può), e finanche un migliaio di giornalisti (ebbene sì, ce ne sono ancora) che hanno firmato un documento senza sbavature “corporativistiche”.
Tutto questo ha un valore ancora più grande se pensiamo che negli altri Paesi occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti, esiste una più o meno profonda convinzione che la stampa debba essere libera e indipendente. Mentre in Italia libertà di espressione e di informazione (sia come diritto a informare, sia come diritto a essere informati) sono ormai considerati beni di lusso, o armi improprie. O entrambe le cose. E quindi vanno tenute sotto controllo.
Ecco, appunto, il controllo. Come si fa a controllare, a purgare, a troncare e a sopire, a narcotizzare, a seppellire? E qual è la “linea rossa” oltre la quale scatta il controllo e, zac, la tagliola si chiude?
Rispondere a queste domande sembra facile. Si dirà: ci sono tanti modi per modificare un articolo, o per censurarne le parti più scomode. Si potrebbe cominciare da quel “taglia e cuci” praticato all’insaputa dell’autore da tempo immemore in tutte le redazioni, magari in nome della esiguità dello spazio, e si potrebbe finire con il pressing e con le “raccomandazioni” di un caporedattore, o di un membro della direzione, o del direttore in persona: raccomandazioni che in certi casi sono più cogenti di quelle emanate dalla Unione europea…
Ma tagliare brutalmente un articolo è ormai considerato un modo primitivo di raggiungere l’obiettivo. Mentre il pressing e la “raccomandazione”, oltre a scoprire i giochi, possono creare antipatici incidenti diplomatici.
E allora come si fa? Non si fa. Siamo in una nuova era, ormai. Nella quale, l’Uomo Nuovo – immaginiamolo come la creatura di Aldous Huxley trasferita in tutti i mezzi di comunicazione di massa – è uno Yes Man perfetto.
Ecco, i giornalisti oggi sembrano dei replicanti, altrettanti Yes Men pronti a ubbidire. Ma la grandezza di questa ultima fase dell’evoluzione della specie è nel fatto che costoro ubbidiscono senza nemmeno attendere gli ordini. Che, attenzione, non sono sempre e necessariamente gli ordini di un Altro. Sono, ormai, gli ordini che lo Yes Man ha imparato a impartire a se stesso. Se non lo facesse si sentirebbe perduto. Oltre ogni autocensura, dunque, che pure si pensava fosse il massimo stadio del controllo della stampa “libera”.
Poteri forti e uomini deboli, affinché il controllo totale delle notizie e delle loro chiavi di lettura sia sempre più efficace. La perfezione però si raggiunge quando il controllo si evolve in riflesso condizionato. La tomba di ogni senso critico. I cani di Pavlov.
Se invece il meccanismo dell’autoimposizione non dovesse funzionare per una ragione qualsiasi, scatta il sistema d’allarme tradizionale. La catena di sant’Antonio delle telefonate. Da un giornalista all’altro, come dal brigadiere al maresciallo al colonnello, fino al generale e oltre. E naturalmente anche in senso contrario, poiché non si telefona mica soltanto “dal” giornale (o dalla tv). Si telefona anche “al” giornale (o alla tv). E le telefonate da un Palazzo all’altro non sono mica soltanto chiamate urbane, è ovvio.
“E’ la stampa, bellezza”. Sollevarne uno per far sentire sollevati tutti gli altri. Ma non dura, vedrete.
Carlo Vulpio (da MicroMega di gennaio/febbraio 2009)