Finanziamento pubblico ai giornali
Il finanziamento pubblico ai giornali costa al cittadino italiano quasi un miliardo di euro all’anno. Il lettore non conta nulla per l’editore di un giornale, contano di più i finanziamenti pubblici (partiti), la pubblicità (Confindustria, ABI, Confcommercio) e i gadget (dvd, fumetti, eccetera). Beppe Lopez, a tal proposito, ha scritto un libro: “La Casta dei giornali”, un viaggio nella disinformazione.
Quesito referendario
«Volete voi che siano abrogate
– la legge 25 febbraio 1987, n. 67, recante “Disciplina delle imprese editrici e provvidenze per l’editoria” limitatamente all’art. 9 comma 6 il cui testo letterale è il seguente “Alle imprese editrici di quotidiani o periodici che attraverso esplicita menzione riportata in testata risultino essere organi di partiti politici rappresentati in almeno un ramo del parlamento è corrisposto: a) un contributo fisso annuo di importo pari al 30 per cento della media dei costi risultanti dai bilanci degli ultimi due esercizi, inclusi gli ammortamenti e comunque non superiore a 1 miliardo e 500 milioni per i quotidiani e 300 milioni per i periodici;
b) un contributo variabile calcolato secondo i parametri previsti dal precedente comma quinto per i quotidiani, ridotto ad un sesto, un dodicesimo o un ventiquattresimo rispettivamente per i periodici settimanali, quindicinali o mensili; per i suddetti periodici viene comunque corrisposto un contributo fisso di 200 milioni nel caso di tirature medie superiori alle 10.000 copie.”
– la legge 7 agosto 1990, n. 250, recante “Provvidenze per l’editoria e riapertura dei termini, a favore delle imprese radiofoniche, per la dichiarazione di rinuncia agli utili di cui all’articolo 9, comma 2, della legge 25 febbraio 1987, n.67, per l’accesso ai benefici di cui all’articolo 11 della legge stessa”
– la legge 5 agosto 1981, n. 416 recante “Disciplina delle imprese editrici e provvidenze per l’editoria” limitatamente agli artt. 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 32, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41»
Soldi pubblici, informazione privata.
“ Ma quanti sanno che lo Stato finanzia il Corriere della Sera, rimpolpando gli utili degli azionisti della RCS con elargizioni calcolate, per un solo anno, in 23 milioni di euro?
E come commentare il fatto che gli italiani, tutti gli italiani, lavoratori e imprenditori, laici e cattolici, piemontesi e siciliani – oberati, tutti insieme e individualmente, dal più alto debito pubblico dell’Occidente (che nel 2006 ha sfondato il tetto dei 1.600 miliardi di euro) e da interessi sul debito colossali (ogni anno il 6% del PIL) – siano costretti a finanziare, fra gli altri il giornale della Confindustria con più di 19 milioni di euro l’anno, il quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana con più di 10 e il quotidiano della Fiat con 7 milioni di euro?
La Mondadori, notoriamente, non ha un quotidiano. Si accontenta, diciamo così, di fare la parte del leone in edicola con i periodici e in libreria con i libri. Come la prendereste se vi dicessero che, solo sotto forma di credito di imposta sulle spese sostenute per l’acquisto della carta in un anno, l’azienda di Silvio Berlusconi è stata da noi sostenuta con un contributo di 10 milioni di euro? E che in un solo anno risulta aver avuto dallo Stato uno sconto, per le spedizioni postali, di quasi 19 milioni di euro?
Tutti conoscono Giuliano Ferrara e il suo Foglio, Vittorio Feltri e il suo Libero, Antonio Polito (poi sostituito da Paolo Franchi) e il suo Riformista. Pochi sanno che costoro possono fornire il loro esuberante apporto alla vita politica e istituzionale del Paese grazia al nostro diretto apporto economico. Insomma ci costano complessivamente più di 12 milioni di euro.” Beppe Lopez, La Casta dei giornali, ed. Nuovi Equilibri
TUTTO A CARICO DEL CONTRIBUENTE
“Per quello che riguarda i contributi indiretti, solo per le spese telefoniche, elettriche e postali, per la carta (a 495 «imprese editrici di quotidiani, periodici e libri») e per la riqualificazione professionale, lo Stato avrebbe dunque “rimborsato” in un solo anno 450 milioni di euro. Ne hanno beneficiato tutte le aziende editoriali, ma di fatto in misura più consistente i giornali a più alta tiratura.
La FIEG calcolava in 270 milioni, nel 2006, la sola “compensazione” per le agevolazioni postali in abbonamento versata dallo Stato a Poste Italiane S.p.A., attribuendoli nella misura di 100 milioni alle pubblicazioni no profit, di 48 ai quotidiani e di 120 ai periodici. In effetti le agevolazioni postali sono costate 303 milioni nel 2005 e 299 nel 2006, secondo il calcolo ufficializzato nel luglio 2007 dal presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato Antonio Catricalà, rendendo pubblica un’indagine dell’Antitrust sul mercato dell’informazione (quotidiani, periodici, TV, nuovi media, ecc.). 7.124 le testate complessivamente sostenute, compresi il settore no profit (104 milioni) e gli editori di libri (25 milioni).
Circa 80 milioni risultavano assegnati a soli dieci editori: 18 milioni e 887 mila alla Mondadori, 17 milioni e 822 mila al Sole 24 Ore, 13 milioni e 753 mila alla RCS, 6 milioni e 966 mila alla San Paolo, 4 milioni e 689 mila al gruppo Espresso-Repubblica, 3 milioni e 603 mila all’Avvenire, 2 milioni e 996 mila a Conquiste del Lavoro, 2 milioni e 581 mila alla De Agostini, 2 milioni e 536 mila all’Athesia Druck, 2 milioni e 415 mila alla Stampa. All’undicesimo posto la Hachette Rusconi, con 2 milioni e 300 mila.
Più in generale, l’Antitrust rilevava che le agevolazioni postali «non hanno costituito una misura efficace per sviluppare degli abbonamenti e finiscono invece col favorire Poste Italiane, unico soggetto presso cui è possibile ottenere i benefici, ostacolando lo sviluppo di una piena concorrenza nei servizi di recapito» (un po’ quello che per decenni è avvenuto complessivamente per le provvidenze all’editoria gestite dall’Ente Cellulosa e Carta, dalle quali gli unici a guadagnarci erano i produttori di carta).
Questa specifica e ormai costosissima agevolazione fu concepita o solo giustificata per agevolare il superamento dello storico squilibrio italiano fra quotidiani venduti in edicola e quotidiani venduti per abbonamento, a causa della proverbiale lentezza delle nostre Poste regie e repubblicane.
…
Sono poi soprattutto i grandi gruppi, i grandi giornali e le testate ad alta tiratura a beneficiare del cosiddetto regime speciale “monofase” di applicazione dell’IVA. All’editore, «quale unico soggetto passivo», è consentito di versare un’aliquota agevolata del 4% sulla vendita di libri, quotidiani e periodici, ma tale agevolazione viene estesa ad alcuni prodotti – libri, dvd, videocassette Vhs, giocattoli, ecc. – venduti in allegato alle pubblicazioni. Non esistono dati sulle dimensioni economiche complessive di questo mancato introito per l’erario, né dei danni subiti dagli operatori commerciali di fatto concorrenti non gratificati della stessa agevolazione. Ma se si considera che la tariffa applicata nei normali canali di vendita è del 20% e se si dà solo un’occhiata alle edicole (spesso veri e propri supermarket-librerie-giocattolerie), se ne può ricavare l’idea che si tratti di un privilegio economico, specie per un’editoria popolare dai grandi numeri, di notevole entità.
E non basta. Ci sono da mettere nel conto anche i finanziamenti «per il credito agevolato e il credito d’imposta in relazione agli investimenti fissi di ristrutturazione e ammodernamento della capacità produttiva». Che nel solo 2004, come abbiamo visto, ci sono costati 11 milioni e mezzo.” Beppe Lopez, La Casta dei giornali, ed. Nuovi Equilibri/Stampa Alternativa
L. 250 soldi ai movimenti politici per loro testate (due parlamentari)
“Nel 1990 … ci si commosse all’idea di estendere l’aiutino (con la legge n. 250) agli organi di «movimenti politici» minoritari, dotati però di almeno due parlamentari italiani o uno italiano e uno europeo: …bastava la semplice, spensierata e disimpegnata firma di due parlamentari sotto la formale costituzione di un “movimento politico” per assicurarsi il diritto ai contributi per l’editoria.
In base alla “legge 250” e successive modificazioni e integrazioni, furono 30 testate ad assicurarsi i contributi relativi al 2001: fino al 40% dei costi medi dichiarati nei due esercizi precedenti per gli organi di partito (e fino al 30% per le cooperative giornalistiche e per le società la cui maggioranza fosse detenuta da cooperative, fondazioni o enti morali) più il contributo sulla tiratura. … Una leggina successiva alla 250 stabilì che la somma di queste due voci – rimborsi sui costi e contributi sulla tiratura – doveva venire raddoppiata sino al tetto del 70% dei costi per gli organi di partito (e del 60% per le cooperative).
Alle testate di “movimento”, per accedere a questi finanziamenti, bastava convincere due amici parlamentari a firmare una carta dove dichiaravano, pur eletti in altre liste e permanendo in altri gruppi, di appartenere al “movimento” di cui la singola testata si pretendeva organo. Naturalmente, non fu previsto alcun controllo sull’effettiva esistenza di un “movimento” o anche solo di una sede operativa, magari costituita da una camera con o senza wc. Naturalmente, era di pubblico dominio che la vita e l’attività di quei “movimenti” rimanevano circoscritte a quella dichiarazione di comodo. Naturalmente, non c’era la necessità che i parlamentari si dimettessero dai partiti nelle cui liste erano stati eletti e nei cui gruppi alla Camera o al Senato o a Bruxelles continuavano notoriamente a militare. Non c’era nemmeno l’obbligo formale di uscirne anche solo temporaneamente, anche solo per dieci minuti. Bastava la firma sotto la dichiarazione (fasulla) di appartenere a un movimento (fasullo). Tutti sapevano e tutti partecipavano alla farsa.
Così quelle 30 testate, nel 2003, avevano incamerato più di 46 milioni di euro. Da solo Libero, grazie alla mascherata del “Movimento Monarchico Italiano”, portava a casa 5 milioni. In virtù delle firme graziosamente concesse dagli amici Marcello Pera (senatore di Forza Italia, centrodestra) e Marco Boato (deputato dei Verdi, centrosinistra), per la sedicente “Convenzione per la Giustizia”, Giuliano Ferrara riusciva ad accaparrarsi per Il Foglio 3,4 milioni di euro. Ancora più goffa risultava la messinscena passando dai giornali veri, che arraffavano ma arrivavano in edicola e vendevano o vendicchiavano, a giornali individuali come l’Opinione delle Libertà, totalmente sconosciuto all’opinione pubblica, se non per una sporadica presenza nelle rassegne-stampa che circolavano nel Palazzo (e una sistematica presenza nella rassegna-stampa di Radio Radicale, significativamente intitolata “Stampa e Regime”). Quella testata e il “Movimento delle Libertà per le garanzie e i diritti civili” si identificavano di fatto in una nota figura del giornalismo di destra capitolino, Arturo Diaconale, che grazie alle sue amicizie di Palazzo riuscì anche nel 2003 a farsi finanziare dagli italiani per 1,7 milioni, tre miliardi e mezzo delle vecchie lire! E che dire dei sei (sei!) miliardi delle vecchie lire strappati dal giovanissimo e rampante parlamentare napoletano Italo Bocchino, improvvisatosi editore, grazie all’antica testata e marginalissimo giornale Roma, e all’invenzione (sulla carta) del “Movimento Mediterraneo”? Altri sei miliardi di lire se li pappò, mettendo la dicitura «Movimento Pensionati» in gerenza, il decadutissimo Giornale d’Italia. Scorrendo ancora quella lista, a parte i giornali di partito, a parte il solito milione di euro per un improbabile quotidiano napoletano, Il Denaro (movimento “Europa Mediterranea”), a parte i quasi 2 milioni per Linea del Movimento Sociale Fiamma Tricolore, si scoprivano anche più modesti esborsi: 49 mila euro per Angeli, Angeli Editrice (movimento politico?); 126 mila per Aprile dei Comunisti Unitari; 28 mila per Le città che vogliamo del movimento “Andria che vogliamo”, 221 mila per Il Patto del “Patto Segni”, 92 mila per Le Ragioni del Socialismo di Emanuele Macaluso (“Movimento per le Ragioni del Socialismo”), ecc…
Governando l’ex PSI Giuliano Amato, la Finanziaria del 2000 si provò a cancellare la buffonata della firma dei due parlamentari. Dal primo gennaio del 2001, «per poter considerare una testata giornale di partito» – annunciava con soddisfazione il sottosegretario diessino alla Presidenza del Consiglio, Vannino Chiti – «bisogna che il partito cui si riferisce abbia un gruppo o nella Camera o nel Senato, superiore ai dieci parlamentari. Una volta che un gruppo è costituito, quel partito ha diritto ad un solo sostegno per il suo giornale: può fare anche quindicimila sottogruppi, ma rimane sempre un solo sostegno. Su questo la legge è precisa». Per la verità, chiarivano subito dagli uffici del Dipartimento, «quelli che avevano già i contributi, possono continuare a percepirli ai sensi del comma 4 dell’art. 153 se si trasformano in cooperativa con quei requisiti» (Virgilio Povia, dirigente del Dipartimento, a Radio Capital, luglio 2002). Si trattava, insomma, di una “sanatoria”: quei giornali, che avevano sino ad allora ottenuto i contributi come organi di “movimenti politici” grazie alla firma senza alcun impegno di due amici parlamentari, potevano continuare tranquillamente a incassarli – e avrebbero continuato beatamente a farlo sino ad oggi – trasformandosi in cooperative fasulle, vale a dire con soci azionisti e non lavoratori.
COSTI DELLA DISINFORMAZIONE
Se l’editoria ci costasse solo un miliardo di euro di finanziamenti all’anno ce ne faremmo una ragione. Ma il costo della disinformazione ci costa molto di più. L’economia senza informazione libera non si sviluppa. Genera mostri come Tanzi, Cragnotti, Fiorani e Consorte. Produce milioni di cittadini derubati. La Parmalat insegna, tutti sapevano, nessuno lo scriveva. Senza informazione libera non c’è mercato e neppure protezione per i consumatori. Giornali servi producono un’economia di ladri.
“Quanto costa complessivamente agli italiani il sistema di provvidenze accumulatosi nel tempo a favore, diciamo così, dell’editoria?
Considerata la molteplicità delle normative stratificatesi nel tempo, con emendamenti, sub-emendamenti, sovrapposizioni e integrazioni, mediante il ricorso a differenti strumenti legislativo-finanziari; rilevata l’evidente indeterminatezza delle numerosissime e non sempre inequivocabili tipologie di contributi e rimborsi; tenuto conto della pluralità delle fonti decisionali e di spesa; constatato infine l’intreccio dei tempi applicativi (o anche di sospensione) di ogni singola tipologia di contributo, è oggettivamente problematico, se non impossibile, acquisire e dare una cifra esatta e incontestabile delle pubbliche sovvenzioni per l’editoria.
Provando a prendere come riferimento i contributi per il 2005, si potrebbero quantificare quelli della Presidenza del Consiglio per la sola carta stampata – articolati su sette voci (contributi diretti, credito d’imposta per la carta, agevolazioni postali, credito agevolato per gli investimenti, credito d’imposta per investimenti, fondo mobilità e rimborsi per teletrasmissione) – complessivamente in 600 milioni circa. Ad essi vanno aggiunte le provvidenze per radio e televisioni locali (radio di organi politici, rimborso per il costo delle agenzie, agevolazioni elettriche e satellitari) e del ministero delle Telecomunicazioni (contributi radio e TV tramite i Comitati regionali per la comunicazione, contributi per il digitale, integrazioni telefoniche e satellitari per giornali e radio e TV), calcolabili in 180 milioni.
Ma non abbiamo ancora considerato i circa 120 milioni delle “convenzioni” con la RAI e le agenzie di stampa. Né considerato altre spesucce come i 10 milioni per le “dirette parlamentari” di Radio Radicale.
Ci sarebbero poi da conteggiare, per una corretta quantificazione dell’intero esborso pubblico in favore dell’editoria, le convenzioni firmate dai vari Ministeri con agenzie e organi d’informazione, gli interventi a loro favore di Regioni ed enti, ecc. L’esborso complessivo dello Stato italiano a favore della Casta dell’editoria – compresi i peones della comunicazione e poche decine di piccole e medie testate e imprese, in essa cooptate o ad essa assimilate, che cercano di fare dignitosamente informazione – tende a toccare il tetto dei mille milioni di euro.” Beppe Lopez, La Casta dei giornali, ed. Nuovi Equilibri/Stampa Alternativa
EDITORI PRIVATI
I contributi pubblici per l’editoria dovevano sostenere i giornali di partito, ma sono andati, per la maggior parte, agli editori privati. In fondo non c’è differenza, perchè i veri giornali di partito sono Il Corriere, La Repubblica, Il Sole 24 Ore, La Stampa, Il Messaggero, Il Foglio, Il Riformista, eccetera, eccetera. Dietro a questi giornali ci sono gli interessi economici di persone e di gruppi privati. Il salotto buono del Corriere con Ligresti, Passera, Della Valle e Elkann, tra gli altri. La Confindustria, De Benedetti, Berlusconi, Cordero di Montezemolo, Caltagirone… Gli editori sono loro, i soldi sono sempre i nostri.
“Era Italia Oggi a pubblicare, insieme a Libero, il 12 maggio 2007, una propria «elaborazione sui dati della Presidenza del Consiglio dei ministri» che riclassificava la tabella sui finanziamenti all’editoria. Se ne ricavava un fondato e inequivocabile documento intitolato: «I grandi giornali battono quelli politici. Sono Corriere, Repubblica e Sole i re del contributo pubblico».
Senza conteggiare gli importi di mutui e vecchi contributi per l’acquisto della carta erogati in base alla legge del 1981 e ancora attivi nello stato patrimoniale di molti giornali, la tabella si riferiva ai fondi della Presidenza del Consiglio del 2006 e al credito agevolato relativo al 2004. E assommava sei tipologie di benefici: agevolazioni dirette per stampa di partito, di movimenti e di cooperative; crediti d’imposta (2004), contributi per l’acquisto della carta, riduzione delle tariffe postali per le spedizioni in abbonamento di quotidiani e allegati, costi pubblici della ristrutturazione (legge 416) e provvidenze per la teletrasmissione all’estero. In tutto venivano considerate 54 testate, finanziate per un importo complessivo sui 200 milioni di euro.
Ne emergeva un quadro impressionante. La RCS, il Sole 24 Ore e il gruppo Espresso-Repubblica, da soli, incassavano in un anno 58.916.624 euro (rispettivamente 23 milioni e mezzo, 19 milioni e 16 milioni). Più o meno la stessa cifra riconosciuta complessivamente a tutte le testate di partito, di movimento e di cooperativa messe insieme.
Altri 20-25 milioni di euro se li aggiudicavano i “giornali indipendenti” regionali o sportivi, con in testa La Stampa (7 milioni di euro), il gruppo Giorno-Carlino-Nazione con più di 3 milioni, il gruppo Caltagirone (Messaggero-Mattino-Gazzettino) con poco meno di 3 milioni e il Corriere dello Sport con quasi 2 milioni.
Al quarto posto assoluto, il tricìpite Avvenire (proprietà Conferenza Episcopale, forma Fondazione ed equiparazione a coop) con più di 10 milioni di euro. Al quinto, l’ammiraglia dei giornali politici, L’Unità, con più di 9 milioni. Seguivano l’ineffabile Conquiste del Lavoro con 6 milioni e mezzo, e l’arrembante Libero con 5 milioni e mezzo.
Complessivamente, la triade di battaglia politica quotidiana contro i vizi e l’assistenzialismo della politica – Libero, Il Foglio e Il Riformista – risultava mantenuta dall’erario per più di 11 milioni di euro.” Beppe Lopez, La Casta dei giornali, ed. Nuovi Equilibri/Stampa Alternativa
SOLE 24 ORE
La Confindustria vuole il libero mercato. Il taglio della spesa pubblica. L’allontanamento degli statali fannulloni. Vuole la legge 30/Maroni, il precariato. E, come è ovvio, anche il profitto di impresa. Il suo giornale, Il Sole 24 Ore, ha ricevuto contributi pubblici per 19.222.787 euro nel 2006. Un quotidiano liberista/statalista che fa utili con le nostre tasse. Un esempio di coerenza contro lo spreco.
“La bibbia del libero mercato in Italia è – o dovrebbe essere – il nostro più grande quotidiano economico, Il Sole 24 Ore. Uno splendido prodotto editoriale e un’impresa che fa utili. Fondato nel 1865, è tra i nostri quotidiani più diffusi (347 mila copie al giorno nel marzo 2007). Per l’esattezza il terzo, dopo il Corriere della Sera (660 mila) e La Repubblica (629 mila), quasi a pari quota con la Gazzetta dello Sport (343 mila). Ha fama di testata autorevole e rigorosa, non solo per le ricche e impeccabili informazioni di servizio che quotidianamente fornisce alle imprese e agli imprenditori. Quotidianamente dalle sue colonne si documentano le interferenze dello Stato nel mercato, le politiche assistenziali e le numerose anomalie che si registrano in Italia nel rapporto fra istituzioni pubbliche ed economia. Ma c’è una notizia – una cosa, diciamo così, abbastanza rilevante e certamente anomala nel panorama internazionale dell’informazione, dell’economia e della politica – che Il Sole 24 Ore non ha mai fornito ai propri lettori: i contributi erogati dallo Stato al Sole 24 Ore.
Trattasi di un apporto annuo agli utili degli azionisti di questo giornale, in definitiva alla Confindustria – sotto forma d’integrazioni per l’acquisto della carta e di agevolazioni tariffarie – che ha raggiunto, come si è scoperto nel 2006, la bella cifra di oltre 19.222.787 euro (di un contributo pubblico di 257.448 euro gode anche Radio 24 – Il Sole 24 Ore).
Solo con le agevolazioni per la spedizione postale, Il Sole 24 Ore, il giornale italiano che in assoluto ha più abbonati, “risparmia” 11 milioni e mezzo di euro l’anno. Per ogni copia spedita ai propri abbonati, invece di 26 centesimi, ne sborsa 11. Il resto ce lo mette lo Stato.
«Da liberista», lo stimato e bravo direttore del Sole 24 Ore, Ferruccio De Bortoli, si dichiara «contrario agli incentivi pubblici». E allora? «In linea di principio, credo che se ci fossero le condizioni di competizione più aperta ed anche condizioni di distribuzione più capillare, credo che naturalmente si potrebbe discutere in termini di mercato».
Abolizione dell’ordine dei giornalisti
Mussolini creò nel 1925, unico al mondo, un albo nel quale si dovevano iscrivere i giornalisti. L’albo era controllato dal Governo e messo sotto la tutela del ministro della Giustizia, il Mastella dell’epoca.
Nel 1963 l’albo divenne con una nuova legge ordine professionale dei giornalisti con regole, pensione, organismi di controllo, requisiti di ammissione. Una corporazione con dei saldi principi. Infatti nella legge 69/1963 è scritto che: è diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d’informazione e di critica, mentre è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede.
Einaudi scrisse: “L’albo obbligatorio è immorale, perché tende a porre un limite a quel che limiti non ha e non deve avere, alla libera espressione del pensiero. Ammettere il principio dell’albo obbligatorio sarebbe un risuscitare i peggiori istituti delle caste e delle corporazioni chiuse, prone ai voleri dei tiranni e nemiche acerrime dei giovani, dei ribelli, dei non-conformisti”
Berlinguer aggiunse: “Io sono contrario al requisito di qualsiasi titolo di studio per la professione di giornalista, perché considero questo come una discriminazione assurda, una discriminazione di classe, contraria alla libertà di stampa e alla libera espressione delle proprie opinioni”.
L’informazione è libera e l’ordine dei giornalisti limita la libertà di informazione. Chiunque deve poter scrivere senza vincoli se non quelli previsti dalla legge.
I giornalisti liberi straccino la tessera, non ne hanno bisogno, il loro unico punto di riferimento è il lettore.
Quesito referendario
I sottoscritti cittadini italiani richiedono referendum popolare abrogativo, ai sensi dell’art. 75 della Costituzione della Repubblica e in applicazione della legge 25 maggio 1970 n. 352, sul seguente quesito: «Volete voi che sia abrogata la legge 3 febbraio 1963, n. 69, recante “Ordinamento della professione di giornalista”?»
Come è regolamentata in Europa la professione del giornalista
GRAN BRETAGNA
Non è mai esistito in Gran Bretagna alcun organismo di natura pubblica che rappresentasse i giornalisti e non esiste tuttora. La maggior parte dei giornalisti è scritta all’Unione Nazionale dei Giornalisti (N.U.J.) che ha natura giuridica di diritto privato ed è retta da uno statuto approvato dai soci. Per iscriversi basta la presentazione di due soci che garantiscano. L’iscrizione all’Unione e all’Istituto non è assolutamente necessaria per l’esercizio della professione o per titolarsi giornalisti. In Gran Bretagna non vi è alcuna legge che protegge il titolo e l’attività di giornalista.
OLANDA
Non vi è alcun organismo pubblico che rappresenti i giornalisti, né alcuna legge che protegga l’attività giornalistica o il titolo di giornalista. Chiunque può fregiarsi del titolo di giornalista e svolgere professionalmente l’attività di giornalista. Esiste solo un sindacato unico (con iscrizione libera) che comprende sia i giornalisti dipendenti che i free-lancers. Tutto è rimesso alla volontà dell’editore che assume, o meno, chi vuole. Non essendo il titolo e la professione del giornalista protetti per legge, ne consegue che giuridicamente non vi è alcun bisogno di un giornalista per dirigere le pubblicazioni.
GRECIA
Non esiste l’Ordine né alcuna Istituzione pubblica che regoli l’attività giornalistica. Nessuna legge protegge il titolo di giornalista, o l’esercizio della professione. Vi sono soltanto le associazioni dei giornalisti. Quattro sono i sindacati rappresentativi dei giornalisti. La principale organizzazione sindacale è quella di Atene e precisamente “L’Unione dei giornalisti dei quotidiani di Atene”.
GERMANIA
L’esercizio della professione di giornalista e il titolo professionale non sono protetti dalla legge. Chiunque può titolarsi giornalista e può svolgere attività giornalistica professionalmente. Non è richiesto dalla legge alcun titolo di studio né generale né specifico. Le assunzioni dei giornalisti sono lasciate ad libitum degli editori. Tutti i cittadini stranieri, appartenenti alla Unione europea o meno, purché esplichino attività redazionale per due anni, possono essere riconosciuti giornalisti professionisti ed iscritti al sindacato. I giornalisti esteri fanno parte della Stampa estera con sede centrale a Bonn.
FRANCIA
Il legislatore francese ha ritenuto giustamente che la libertà di stampa sia una delle più importanti libertà pubbliche ed ha quindi riservato alla professione di giornalista nel codice del lavoro, delle regole particolari ponendola, almeno in parte, al di fuori del diritto comune. È stata quindi garantita al giornalista una certa libertà ed un certo spazio nei confronti dell’imprenditore e dei pubblici poteri. Esiste una procedura per ottenere la tessera stampa che deve essere rilasciata da una Commissione cui il richiedente deve esibire la dichiarazione del direttore della pubblicazione e le buste paga da cui risulta che è remunerato secondo i minimi nazionali. Ma in pratica la Commissione non fa altro che automaticamente confermare una decisione padronale. L’esercizio della professione giornalistica è libero. L’iscrizione non è subordinata al possesso di un titolo di studio.
FINLANDIA
Esiste un solo sindacato, unico organismo rappresentativo dei giornalisti finlandesi. L’iscrizione non è obbligatoria. L’Unione è un’associazione di natura giuridica privata e segue le norme che i giornalisti finlandesi hanno autonomamente approvato. Dette norme, peraltro, non sono obbligatorie per i non iscritti. Non sono, di conseguenza, protetti né il titolo, né l’esercizio della professione giornalistica. Chiunque può liberamente dire di essere un giornalista ed esercitare la professione senza obbligo di iscriversi al sindacato e senza, per questo, incorrere in sanzioni di natura penale.
Abolizione della legge Gasparri
La Corte europea di giustizia ha condannato il regime italiano di assegnazione delle frequenze radiotelevisive.
La Corte ha dato ragione a Europa 7, le cui frequenze sono occupate dalla rete di propaganda di Arcore, detta anche Rete 4. La Corte ha evidenziato che il regime di assegnazione delle frequenze nel nostro Paese:
– non rispetta il principio della libera prestazione dei servizi
– non ha criteri di selezione obiettivi – trasparenti – non discriminatori – proporzionati (poi ha finito gli aggettivi)
La sentenza europea segue quelle a favore di Europa 7 della Corte costituzionale, del Consiglio di Stato e dell’Avvocato generale della Corte di Giustizia europea del 12 settembre 2007 (che ha bocciato la legge Gasparri).
Mi aspetto che si faccia applicare la sentenza senza invocare la Nato e l’ONU. Ma sono sicuro che non succederà. Con il solito trucco: cambieranno la legge.
Le frequenze radiotelevisive sono in concessione, significa che sono di proprietà dello Stato, che può decidere, liberamente, a chi assegnarle. Le frequenze sono quindi dei cittadini, di nostra proprietà.
Le leggi che hanno regolamentato il sistema radiotelevisivo, dalla Mammì alla Gasparri, hanno creato un mostro: il Testo Unico. Cambiarlo solo in parte è inutile, va eliminato per poter definire, da zero, nuove regole che garantiscano una vera informazione.
Quesito referendario
I sottoscritti cittadini italiani richiedono referendum popolare abrogativo, ai sensi dell’art. 75 della Costituzione della Repubblica e in applicazione della legge 25 maggio 1970 n. 352, sul seguente quesito: «Volete voi che sia abrogato il Decreto Legislativo 31 luglio 2005, n. 177, recante “Testo unico della radiotelevisione”?»
La cosiddetta legge Gasparri,
dal suo promulgatore il deputato Maurizio Gasparri, è la legge n. 112 del 3 maggio 2004 – “Norme di principio in materia di assetto del sistema radiotelevisivo e della RAI – Radiotelevisione italiana S.p.A., nonché delega al Governo per l’emanazione del testo unico della radiotelevisione”.
La legge Gasparri è una delle leggi più discusse del Governo Berlusconi II. Si tratta in sostanza di una legge di riforma generale del sistema radiotelevisivo, la terza “legge di sistema” dopo la legge n. 103/1975 e la legge Mammì. La legge Maccanico cerca di rimediare all’insufficiente carenza normativa della legge Mammì per garantire maggiormente il pluralismo esterno.
La legge, proposta dal ministro delle comunicazioni, Maurizio Gasparri, è stata oggetto di un iter legislativo molto complesso. Approvata dal Parlamento il 2 dicembre 2003, è stata rinviata alle Camere dal Presidente Ciampi il successivo 13 dicembre, con messaggio motivato.
Il messaggio del Presidente ha dei richiami precisi:
• necessità di fissare un termine più breve per la regolamentazione del digitale terrestre da parte dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (la l. Gasparri cercava di prorogare il termine fissato dalla sent. n. 466/2002 della Corte Costituzionale)
• la base di riferimento per il calcolo dei ricavi (il c.d. Sistema Integrato delle Comunicazioni) potrebbe consentire, a causa della sua dimensione, a chi ne detenga il 20 per cento di disporre di strumenti di comunicazione in misura tale da dar luogo alla formazione di posizioni dominanti, violando così il pluralismo.
La legge definitiva
Per quanto riguarda il primo richiamo mosso dal Presidente col suo messaggio, il Governo si è preoccupato di adottare un decreto legge (il c.d. decreto salvareti), che è poi stato convertito in legge dal Parlamento in data 23 febbraio 2004, aspramente criticato perché di fatto calpestava una sentenza della Consulta che ordinava la messa sul satellite di un rete Mediaset e la conseguente perdite di pubblicità su Raitre. Il nuovo testo della legge Gasparri è stato approvato in via definitiva il 29 aprile (dopo 130 sedute e la presentazione di 14000 emendamenti), e promulgato dal Presidente il 3 maggio 2004.
Principi della legge
La legge Gasparri contiene delle novità:
• limiti al cumulo dei programmi e alla raccolta di risorse economiche (art. 15):
o definizione del “SIC” (Sistema Integrato delle Comunicazioni), che comprende stampa quotidiana e periodica; editoria (…) anche per il tramite di Internet; radio e televisione; cinema; pubblicità
o i soggetti (che sono quelli previsti dall’art.1, co.6, lett. A), num.5 della legge 31 luglio 1997, num. 249) non possono conseguire, né direttamente, né attraverso soggetti controllati, ricavi superiori al 20% dei ricavi complessivi del sistema integrato delle comunicazioni (tale limite corrisponde a circa 26 miliardi di euro, e sostituisce il limite del 30% della l. Maccanico, il quale però corrispondeva a 12 miliardi)
• lo switch-off del digitale terrestre va realizzato entro il 31 dicembre 2006 (art. 23)
• differenti titoli abilitativi per lo svolgimento delle attività di operatore di rete o di fornitore di contenuti televisivi o di fornitore di contenuti radiofonici (art. 5)
• l’autorizzazione non comporta l’assegnazione delle radiofrequenze (art. 5)
Critiche alla legge
La legge Gasparri è stata criticata per i seguenti motivi:
• il tetto antitrust definito nel 20% del SIC è stato sì abbassato in misura percentuale rispetto al 30% della l. del 1987 (art 3 lett. B L. 67/1987), ma il valore assoluto di tali percentuali è passato da 12 miliardi di euro di allora a 26 miliardi oggi
• l’aumento del limite antitrust viola il principio del pluralismo sancito dall’Articolo 21
• si incentiva ancora di più la pubblicità televisiva, a scapito di quella sulla stampa
• mancano riferimenti al diritto all’informazione degli utenti
• la fissazione di una data (31 dicembre 2006) entro cui realizzare le reti digitali terrestri rischia di aprire un altro regime di proroga (rischio concretizzato nel rinvio al 2012 del digitale)
• ci sarebbe una grave e palese violazione della sentenza 466/2002 della Consulta
• Mediaset potrebbe avvantaggiarsi più di altri editori rafforzando la sua posizione dominante
• in generale, un pericolosissimo rischio di rafforzamento della figura di Silvio Berlusconi nel campo tv.
• lasciava irrisolti i problemi del piano nazionale delle frequenze
Bocciatura dell’UE
L’Unione Europea è intervenuta con una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia dove si chiedevano spiegazione sulle storture del sistema radio-tv causate dalla Gasparri. [1]; la stessa unione, a luglio 2007 dà 2 mesi di tempo all’Italia per correggere le presunte storture della Gasparri sulla parte relativa al digitale terrestre.
La richiesta di proroga del governo italiano è stata respinta, ciò vuol dire che con le regole in vigore lo Stato Italiano rischia una multa di 300-400 mila euro al giorno fino a quando non saranno cambiate le regole.
La multa sarà applicata a partire da gennaio 2009, retroattivamente al 2006, quindi la stima iniziale della multa è tra 328,5 e 438 milioni di Euro.
Il nuovo disegno di legge
Avvenuta con le elezioni del 2006 il cambiamento della maggioranza, il nuovo ministro Paolo Gentiloni ha presentato un disegno di legge che da un lato fa slittare al 2012 il termine per passare dalla televisione analogica a quella digitale, dall’altra cerca di modificare ampie porzioni della legge Gasparri. Ampie riserve anche su quest’ultimo disegno di legge sono state espresse dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Antonio Catricalà, mentre Corrado Calabrò, presidente dell’Authority per le comunicazioni, spinge per la rapida approvazione.
VARIE
Puntata di Report: http://www.report.rai.it/R2_popup_articolofoglia/0,7246,243%5E90227,00.html
Articolo su La Casta dei giornali: http://www.stampalternativa.it/wordpress/2007/10/17/la-casta-dei-giornali-i-contributi-alla-stampa/
Per chi si vuole “divertire”: Dossier del Governo sui contributi all’editoria http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/contributi_editoria_2006/contributi.html