(Sanniopress) – 1) «Heidegger era nazista sì o no?», si chiede (e mi chiede?) Giancristiano Desiderio. L’uso dei tempi è decisivo… Dunque: Heidegger non “era” nazista, ma “fu” nazista… Il passato, certo, non è mai del tutto remoto, ma sostituirlo all’imperfetto permette di non negare una verità inoppugnabile (ben prima del libro di Farias che, alla metà degli anni Ottanta, in pieno fervore postmoderno e neo-heideggeriano, fece riesplodere il caso per colpire, in realtà, i filosofi che da quella matrice discendevano: Vattimo e Derrida in particolare). Che significa che Heidegger fu nazista ma non era nazista? Che aderì al movimento, ebbe la tessera del partito per alcuni anni, se ne giovò per la carriera accademica, se ne ritrasse probabilmente deluso ma senza mai prendere posizione contro il regime. Perché lo fece? L’ho scritto spesso: per miseria morale. Martin Heidegger era un uomo piccolo piccolo, di umili origini, ambizioso. Il partito fu per lui la strada maestra per raggiungere i vertici del “suo” mondo, l’accademia, il rettorato a Friburgo. Controprova: tutti gli allievi di Heidegger ebrei, a partire dalla sua amante, Hannah Arendt, passando per Jonas e Anders, hanno continuato a provare venerazione per l’insegnamento del maestro, pur nel disprezzo della sua discutibile moralità personale.
2) La vera domanda, però, è un’altra, che Giancristiano pone in maniera più problematica. La filosofia di Heidegger è nazista? Proprio in questi mesi è uscito in Italia un libro che dà risposta affermativa. Si tratta di Heidegger. L’introduzione del nazismo nella filosofia (Asino d’oro) di Emmanuel Faye. Rispetto a questa tesi io dissento radicalmente. Già alla metà degli anni Trenta, nel corso su Nietzsche, Heidegger dimostra non solo di aver capito il suo errore di analisi della realtà europea e tedesca, ma elabora strumenti che consentono di annoverare le forme della politica novecentesca, tutte, ivi compreso, dunque, il nazismo, all’interno di quella deriva nichilistica che è l’ultima manifestazione dell’oblio dell’essere e della metafisica occidentale come dispiegamento della volontà di potenza. Controprova: dall’albero heideggeriano, con l’eccezione del pensiero della nuova destra di de Benoist (che non è affatto male!), non si è diramato nessun pensiero di “destra”. Se ne sono giovati, invece, pensatori come la Arendt, come Anders, come Jonas, come Gadamer, come Grassi, come Derrida, come Vattimo. Foucault e il pensiero della differenza femminile sono pensabili senza alcuni intuizioni heideggeriane? L’albero si giudica dai suoi frutti…
3) Ad Heidegger Giancristiano oppone il nobile esempio di Croce, che nel pensiero e nella vita si batté contro un regime illiberale in nome della libertà… Vorrei ricordare, però, a Giancristiano che Croce e i liberali italiani guardarono con favore al fascismo nascente come strumento per riportare all’ordine le masse operaie che nel biennio rosso avevano messo in discussione gli assetti sociali italiani. E, dato che è un filosofo “pop”, suffrago la mia tesi con il massimo del pop, la mia amata Wikipedia: «Inizialmente affine all’ideologia fascista, nella quale confidava, come molti altri, perché l’Italia potesse effettuare un ritorno all’ordine…» (così saprà dove indirizzare i suoi strali…). Ovviamente, dal punto di vista morale non c’è paragone tra lui e il tedesco, poiché Croce, capìto il suo clamoroso errore (lo stesso che lo aveva spinto ad appoggiare l’interventismo in occasione della prima guerra mondiale), passò il ventennio a contrastare il regime. Ma, e questo è il punto per me più importante della questione, l’idealismo crociano non offre alcuno strumento utile per capire in profondità il XX secolo e i mostri che ha prodotto, soprattutto in campo politico. L’analisi del fascismo come “malattia”, come “parentesi” della storia italiana impedisce a Croce di cogliere gli elementi di continuità tra il fascismo e la storia italiana precedente (ad esempio, l’età crispina) e, soprattutto, la sua storia “ideale” non gli consente di cogliere quelle dinamiche di classe che portarono all’affermazione del regime. Croce espiò il suo peccato, Heidegger lo portò come una colpa inespiabile, probabilmente. Ma mentre il pensiero del primo mi appare totalmente inerte per la comprensione del presente e del futuro, quello del secondo deve essere ancora compreso nella sua portata “anarchica” (Schürmann) e “rivoluzionaria”. La questione del suo nazismo troppo spesso diviene un pretesto per non fare i conti con la sua forza ustoria.
4) Tutto ciò che Giancristiano dice nella chiusa della tua riflessione, sulla libertà e le lotte per difenderla, è assolutamente condivisibile senza se e senza ma.